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Francesco Saverio Russo

Francesco Saverio Russo: I veri influencer?

I vignaioli che raccontano il proprio lavoro, le scelte, i territori e il vino senza compromessi

Cosa consiglio ai produttori che vogliono raccontare la propria realtà vitivinicola? Di esporsi in prima persona, senza scendere a compromessi. Credo che il vignaiolo sia il più adatto a raccontare approcci, visioni, lavoro e territorio.

Di Emanuele Fiorio

Gli areali produttivi, la sostenibilità concreta, l’approccio futuribile al vino: l’obiettivo di Francesco Saverio Russo non sono le singole cantine ma ciò che rappresentano nel contesto allargato di un territorio, di una cultura rurale che deve inevitabilmente relazionarsi con rapide metamorfosi dovute ai cambiamenti climatici, alle prospettive sociali ed economiche, ai mutamenti delle preferenze del mercato e dei consumatori. Una visione che abbiamo voluto sviscerare attraverso questa testimonianza, realizzata nell’ambito del progetto “Amorim Wine Vision”.

Come definiresti il tuo approccio alla comunicazione del vino, quali sono i tuoi elementi identitari?

Sembra banale dirlo ma non lo è affatto, ho basato il mio lavoro sull’etica e penso che sia stata una scelta premiante. Ho cercato di addentrarmi nelle questioni agronomiche più che enologiche, volendo semplificare parlo più di territorio e vigneti che di prodotto. Ciò che mi riconoscono è anche la mia presenza nei luoghi di produzione, la componente del viaggio che mi fa percorrere migliaia di chilometri in giro per l’Italia.

Quali sono i principali obiettivi che ti poni come wine blogger e quali sono i principali fattori che ti guidano nella scelta dei produttori e dei vini di cui scrivi nel tuo blog?

L’etica di cui parlavo in precedenza è un elemento che oggi utilizzo in maniera pragmatica. Non voglio lavorare per un mero “do ut des”, la mia narrazione del vino non è mai stata subordinata a dinamiche commerciali. Negli ultimi anni ho quasi smesso di scrivere su singole cantine, mi addentro negli areali produttivi, focalizzandomi sulla sostenibilità, su un approccio futuribile al vino. Cerco realtà che mi diano la possibilità di parlare di tematiche allargate, i cambiamenti climatici, le prospettive concrete, l’evoluzione dei consumatori.

Per evoluzione non parlo di trends ma di curve del gusto e mi accorgo che alcuni produttori si stanno dimostrando più capaci di altri nell’anticipare alcuni cambiamenti senza ledere in alcun modo la propria identità. L’idea del vino contemporaneo non può prescindere da alcune evidenze, il mercato chiede vini che facciano meno affinamento in legno e più in bottiglia (i valori analitici indotti anche dai cambiamenti climatici, stanno incidendo sull’evoluzione dei vini in botte), che possano dare il meglio in termini di espressività in 2-3 anni con una forte afferenza territoriale e che anelino all’eleganza con un’agile dinamica di beva.

Questo non significa, di certo, rinunciare alla longevità ma, “semplicemente”, prendere atto di ciò che sta accadendo e di ciò che i produttori italiani potrebbero interpretare con grande sensibilità ed equilibrio.  Altri contesti a livello mondiale ci stanno facendo capire che è necessario l’adattamento, alcuni vini stanno faticando a mantenere gli standard di un tempo in termini di longevità e armonia, a causa delle disparità fra maturazioni (tecnologica, fenolica e aromatica) e di disciplinari anacronistici.

Come vedi il rapporto tra le aziende vitivinicole ed il mondo digitale? Che atteggiamento riscontri da parte dei vignaioli?

Il Covid-19 è stato un acceleratore a livello digitale e comunicativo, in Italia eravamo arretrati su questi aspetti. È aumentata l’attitudine a mostrarsi con maggior disinvoltura con mezzi che precedentemente non erano considerati utili come le videocall che continuano a risultare utili in termini di ottimizzazione dei tempi, organizzazione e incontri.

Oggi, c’è la volontà di raccontare il proprio lavoro in vigna, le tecniche, i processi di vinificazione e persino l’imbottigliamento (che persino nelle università è poco trattato), con un occhio di riguardo nei confronti della tematica, sempre più attuale, delle chiusure. Per quanto concerne il marketing nel mondo del vino ha attecchito tanto in alto (realtà industriali, gdo, grandi e-commerce) ma poco in basso (piccolo e medie aziende agricole).

Penso che il fattore vincente sia “metterci la faccia” e consiglio ai produttori che vogliono fare marketing, di non fare marketing diretto, affidandosi a pseudo-influencer o marketer improvvisati (esistono agenzie ed esperti di marketing sicuramente più utili se si vuole impostare una campagna promozionale relativa, ad esempio, al lancio di un nuovo vino).

Bisogna raccontare il proprio lavoro, le proprie scelte e il proprio approccio dalla vigna alla cantina, ma si dà ancora troppa importanza alla bottiglia di vino come bene di lusso esclusivo privato di molti dei valori dei quali è intriso . A questo riguardo vedo ancora troppe sciabolate a destra e a manca, gente che beve più l’etichetta che il contenuto e tanta superficialità nella comunicazione fatta sui social (ovviamente non parlo di quella fatta dai produttori). Mi piacerebbe vedere i produttori esporsi in prima persona, prendendo posizione rispetto a certe dinamiche e non alimentandole.  Trovo che questo processo si stia in parte già verificando e le nuove generazioni sono fondamentali nell’elevare la percezione del vino attraverso i social e il web.

Come vedi l’evoluzione della comunicazione legata al vino in relazione all’intelligenza artificiale? Quali sono i pro ed i contro di queste innovazioni?

Ero un po’ reticente nei confronti dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale, ho timore che possa appiattire la narrazione se utilizzata a livello editoriale. In ogni caso credo che non sia in grado di addentrarsi nel mondo del vino tanto quanto un addetto ai lavori. Ho fatto dei test ma vedo che i risultati non sono soddisfacenti e le lacune sono palesi. Parsimonia e contezza sono fattori che devono essere messi in campo quando ci si relazione con l’AI.

Sarà, comunque, interessante utilizzarla per renderci conto del fatto che noi addetti ai lavori siamo una cerchia ristretta che rischia di convincersi che ciò che si dice e si ascolta all’interno della  cerchia stessa sia la realtà anche al di fuori di essa, mentre  non abbiamo affatto il polso dei trend topic del mondo del vino a livello globale. Se si interroga su questo l’AI emerge che spesso non centriamo gli argomenti principali. Detto questo, l’AI può essere senz’altro più utile in campo e in cantina per sviluppare soluzioni tecniche ed una sicurezza maggiore che toglie spazio all’empirismo anche nell’ottica della sostenibilità e della riduzione delle addizioni chimiche.

Ritieni che i vignaioli possano diventare i nuovi wine influencers? In che modo credi che i social media possano influenzare le interazioni tra produttori e consumatori?

Il vignaiolo è l’unico in grado di veicolare certe informazioni, credo sia abbastanza comprensibile. La figura del wine influencer credo che non possa essere identificata con quella di un marketer, può essere un critico o un comunicatore indipendente ma ribadisco che, a mio parere, è chi il vino lo fa ad essere più adatto/a a raccontare del proprio lavoro e del territorio in cui affondano le radici le viti dei propri vigneti.

Una comunicazione che si fa ancor più forte e impattante se la si attua in maniera congiunta e coesa. Un esempio lampante è rappresentato dalla Fivi (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti) che, partita con un manipolo di produttori, oggi,  vanta un impatto sempre maggiore sia nei confronti dei consumatori che  delle istituzioni.

Puoi raccontarci di un momento particolarmente emozionante o significativo che hai vissuto grazie al tuo coinvolgimento nella comunicazione del vino?

Ti racconto un aneddoto legato a quello che è accaduto la settimana scorsa con la bomba d’acqua e grandine che si è abbattuta su una parte delle colline di Langhe, Roero e Monferrato. Salendo a Rodello, dove dovevo tenere una masterclass, ho visto i vigneti rasi al suolo e non ho potuto far altro che ricordare che proprio una situazione simile – accaduta quasi 20 anni fa nei vigneti di un caro amico che avrei dovuto aiutare a vendemmiare – mi aveva spinto a iniziare il mio percorso di scribacchino enoico. L’impegno, il lavoro ed il sacrificio che si celano dietro a questo mondo sono stati la miccia che ha acceso il mio interesse e la mia volontà di dare voce ai vignaioli e di narrare le dinamiche territoriali partendo dal vigneto.

Quale consiglio daresti ai giovani che vorrebbero intraprendere un percorso nel mondo della comunicazione digitale del vino?

Mi fa sempre piacere quando mi scrivono giovani intraprendenti che vorrebbero iniziare a comunicare il vino online, ma mi rendo conto che ho avuto la fortuna di iniziare quando eravamo pochi, oggi è più difficile distinguersi. La questione centrale è trovare una propria identità, non nell’eccesso ma nella qualità, possibile solo con studio ed esperienza. Non credo basti raccontare solo la bottiglia. E’ fondamentale confrontandosi con i vignaioli e partire dal vigneto che, secondo me, rappresenta il cardine imprescindibile della comunicazione enoica. Capisco che dal punto di vista economico sia più semplice creare dei profili social e vendere “pacchetti promozionali” ma i produttori sono sempre più attenti e meno sprovveduti, stanno crescendo e stanno puntando maggiormente sulla qualità dei contenuti.

Il greenwashing è una minaccia per la credibilità della comunicazione del vino e la reputazione delle aziende stesse. Quali sono, secondo te, le best practice per una comunicazione autentica e responsabile nel settore del vino?

Non credo che le piccole e medie realtà vitivinicole siano così inserite nella morsa del greenwashing, è evidente e verificabile l’autenticità della loro sostenibilità. Quando facciamo riferimento alle grandi aziende, devono entrare in ballo le certificazioni e le modalità di approccio agronomico ed enologico che dovrebbero essere raccontate in maniera più pragmatica e meno romantica. Inoltre, leggo ancora su brochure e siti internet di “vini che si fanno da soli”, di “naturalità” e “salubrità” del vino… ecco, dovrebbe esserci una regolamentazione più ferrea sull’utilizzo di certi termini che possono risultare fortemente fuorvianti. Oggi, ciò che non si fa è più importante di ciò che si fa, purché si dimostri che “non si fa” con contezza e consapevolezza tecnica e non con negligenza. La tanto discussa “sottrazione” è qualcosa che va messa in evidenza e comunicata in maniera semplice ma non banale, dimostrando che si può togliere ottenendo ancora più nitidezza espressiva e veicolando maggiormente l’identità varietale e territoriale.

È importante far capire che il lavoro del vignaiolo non ha un protocollo standard, non ha una ricetta preconfezionata, è una ricerca che deve essere modulata in base ad una serie di variabili, prima fra tutte: l’annata.

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