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Comunicazione del vino, Stevie Kim: intercettare le tendenze, il focus sono le nuove generazioni

La Gen Z è il futuro, si concentra meno su notorietà del brand e premi, cerca storie, è attenta ai formati alternativi e vuole fare esperienze.

Di Emanuele Fiorio

Stevie Kim è una figura peculiare nel mondo del vino italiano, con un’esperienza internazionale che abbraccia diverse culture e continenti: nata in Corea, cresciuta negli Stati Uniti, attualmente risiede a Verona, dove ricopre la carica di Managing Director per Vinitaly International.

Stevie ha assunto un ruolo di primo piano nella promozione del brand Vinitaly e della cultura del vino italiano a livello internazionale. Il suo impegno è spinto dalla volontà di rendere accessibili al grande pubblico i complessi temi del mondo vinicolo in modo accattivante e coinvolgente. Investendo in piattaforme social e strumenti di comunicazione emergenti, Stevie mira a radunare una comunità internazionale di appassionati di vino.

Una professionista che ha sempre dimostrato attenzione verso le nuove generazioni, con una spiccata curiosità nei confronti delle novità, della comunicazione digitale e delle innovazioni tecnologiche.

Grazie al suo impegno costante nel coinvolgere la comunità del vino e il suo supporto alle cantine, Stevie Kim si è ritagliata un ruolo di primo piano come comunicatrice e volto internazionale del vino italiano. Per questo nell’ambito del progetto “Amorim Wine Vision”, abbiamo voluto raccogliere la sua testimonianza.

Secondo una indagine condotta da Wine Meridian, solo il 14% delle imprese del vino ha una figura interna dedicata che si occupa di comunicazione, la maggioranza (47%) utilizza una risorsa trasversale che svolge anche altri ruoli. Qual è la tua opinione rispetto a questa realtà?

In realtà penso che il dato sia più alto, sia in Italia che all’estero. La maggior parte sono aziende medio-piccole e non hanno una struttura adeguata per dedicare una persona alla comunicazione.

La loro priorità è il prodotto, si concentrano sulla produzione e sulla commercializzazione cioè sul collegamento tra vigna e cantina. Non pensano al collegamento tra cantina e vendita che passa attraverso la comunicazione.

Nelle aziende a gestione familiare spesso è lo stesso produttore o l’export manager che si occupano dell’aspetto comunicativo. Noi comunicatori dobbiamo far capire alle aziende il valore aggiunto di investire in comunicazione, ma prima di investire bisogna avere la consapevolezza dell’importanza di questo aspetto e delle risorse umane idonee e utili per raggiungere gli obiettivi comunicativi.

In diverse occasioni hai dichiarato che attualmente non ha più senso distinguere fra digital marketing e marketing (tradizionale) anche in relazione alla gestione dei social. Puoi spiegarci le motivazioni di questa tesi?

Le aziende e tutta la filiera pensano che “digital marketing” sia sinonimo di “social media”. Non è affatto così, il digital marketing riguarda diversi aspetti: pricing, storytelling, packaging, sostenibilità, placement e promozione. Sono elementi di marketing tradizionale, è solo cambiato il mezzo.

Con l’avvento dei social media c’è stata una grossa novità, i consumatori per la prima volta hanno potuto relazionarsi con i produttori ed esprimere la propria opinione direttamente.

Una volta la spesa di advertising era legata a TV, radio, stampa tradizionale. Nel 2017-18 la spesa totale per il digital advertising (Google AdWords, promozioni sui canali social, etc…) ha superato per la prima volta la spesa per l’advertising tradizionale.

Le tendenze si sono evolute ed i consumatori, soprattutto negli ultimi 3 anni, hanno cambiato radicalmente comportamenti di acquisto, priorità ed occasioni di consumo. A questi mutamenti spesso non sono seguite strategie comunicative in grado di assecondare questi cambiamenti. Quali sono le ragioni secondo te?

Con la pandemia le persone hanno necessariamente scoperto ed utilizzato l’e-commerce ma il settore vinicolo italiano non era pronto per questa novità. C’è stato un aumento vertiginoso delle vendite, ma questo processo ha giovato soprattutto alle aziende strutturate e di fascia medio-alta perché l’e-commerce è guidato molto dalla riconoscibilità del brand. La fascia entry-level ha sofferto maggiormente durante i lockdown.

Tutte le persone che non andavano al ristorante hanno ordinato direttamente dal produttore o attraverso l’e-commerce ed hanno consumato a casa. In USA è ancora molto diffuso lo smart working e la nuova filosofia è consumare bene in casa.

I giovani della Gen Z sono il futuro del successo nel mondo del vino, rappresentano una opportunità reale per le piccole e medie imprese perché tendono a concentrarsi meno sul brand rispetto a Millennials e Boomers. Sono molto più aperti alla sperimentazione, ai formati alternativi e vogliono fare esperienze. Per i giovani tutto questo è più rilevante rispetto alla notorietà del brand e la comunicazione deve evolversi in questa direzione.

Tra i fattori determinanti per rendere efficaci la promozione e la comunicazione hai citato “formazione”, “innovazione” e “internazionalizzazione”. Che consigli pratici daresti ad un imprenditore del vino per raggiungere questi obiettivi?

Questi tre elementi sono importanti ma vorrei che non li pensassi come tre compartimenti stagni. Secondo me per fare internazionalizzazione serve formazione, per fare innovazione servono formazione e internazionalizzazione. Ognuno di questi aspetti è legato, è una dinamica circolare, si compenetrano e dipendono l’uno dall’altro. Innovare non significa solo sviluppare tecnologia, significa pensare “out of the box”, significa creare pensiero laterale. È un flusso dinamico, non statico e gerarchico.

La comunicazione delle imprese vitivinicole è ancora fortemente prodotto-centrica. Le aziende vogliono parlare del loro prodotto, perseguono il riconoscimento di premi: questo assorbe molte energie aziendali. Qual è la tua visione in merito?

I premi sono sempre meno importanti, molto meno influenti rispetto ad una volta, non sono io che lo dico ma le aziende.

Stanno perdendo rilevanza anche perché l’offerta è troppo elevata. C’è da sottolineare però che nel mercato USA, il più importante per il vino italiano, i punteggi di Wine Spectator e Robert Parker hanno ancora un certo peso.

Anche in questo caso farei una parentesi sui giovani: questi standard sono stati dettati dai Boomers ma i giovani cercano storie e sono attenti al packaging, non ai punteggi e ai premi.

Noi dobbiamo prevedere ed intercettare la percezione e le tendenze dei mercati del vino ma il focus deve essere sulle nuove generazioni.

In questo senso lancio una domanda provocatoria: “La Marca” è il brand di Prosecco più esportato negli USA, è il primo al mondo e il distacco sul secondo è abissale. Questa linea non viene venduta in Italia. Come hanno fatto a raggiungere questi risultati? È questo ciò che dobbiamo analizzare e su cui dobbiamo concentrarci.

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